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Storia della mia ansia~Daria Bignardi

È uscito Storia della mia ansia, il nuovo libro di Daria Bignardi.

Ho letto praticamente tutti i suoi libri, non potevo non leggere la trama, per scoprire questa volta di che cosa si trattasse.

Storia della mia ansia è  una scelta azzeccatissima per attirare l’attenzione di un’ansiosa come me e, credo, della maggior parte della popolazione umana onesta…chi non soffre di ansia?

Qui però si scopre fin da subito che non si tratta di un’ansia qualsiasi, come quella prima di un esame, o di una prova importante, oppure quella che ti coglie prima di dover affrontare un estraneo per un colloquio o avere un confronto serio e delicato con un amico. No. L’ansia che racconta Daria è quella che si replica, che cresce dentro di sé e come parte di sè, per un modello a cui non si poteva sfuggire, quello genitoriale.

Lea, la protagonista (anche lei, bel nome), era una bambina piccola, la secondogenita, che metteva le lancette dell’orologio indietro di dieci minuti ogni sera, perché la madre se alle otto in punto non vedeva arrivare il marito, era certa che fosse morto, e per questo rallentava i rituali della preparazione della cena, per scampare l’assai probabile pericolo.

Altre volte, Lea parla della madre come di una madre “capace di un amore incondizionato e autolesionista” che proprio con questo suo amore, le ha fatto credere che “chi ci ama davvero, è capace di tutto, ma non è cosi”. Daria, però, non si sofferma a lungo a parlare di lei e del legame che le tiene unite, ma solo con queste poche descrizioni fa intuire un mondo, che è il cuore, il centro esatto che spiega come Lea affronta la vita e le dure prove che proprio la vita le pone davanti.

Lea scopre di avere un tumore al seno, del tutto inaspettatamente, senza nessun sentore, senza nessuna spiegazione o probabilità lampante per una donna con un tenore di vita sano, magra, senza vizi, se non uno, che però non provoca il cancro. Il vizio più grande di Lea è rincorrere un amore “malato” per il marito Shlomo. Malato, perché è un amore che pretende, che è fatto di continue richieste di attenzioni, più o meno palesate (ma tanto si sentono comunque), attenzioni ancor più insensate per un uomo tutto di un pezzo come Shlomo, concreto, fatto di gesti e non di tante parole, ancor meno se affettuose, che non servono a niente. Di fronte a una persona così, Lea ha due possibilità: o pensare che dentro quei silenzi ci sia un mondo fatto di risposte sacre e di certezze di un uomo guru che ha scoperto le verità del mondo e non le dice né tanto meno si abbassa a dare conferme di nessun tipo, oppure di un uomo stronzo che di lei se ne frega. L’unica certezza che ha Lea è che lo ama e non può immaginarsi una vita senza di lui e senza i suoi figli, senza la loro realtà, costruita col tempo, negli anni, complicata e a volte insopportabile, ma profondamente sua. Neanche l’incontro con Luca, un ragazzo molto più giovane di lei, conosciuto durante la prima chemio, la convincerà che il suo posto sia davvero da un’altra parte.

Questo libro non è la storia di chi sopravvive a un tumore, ma di chi attraverso questa esperienza – ma potrebbero anche essere altre- impara a saper vivere. Sicuramente ritardare la morte, vincendo quella battaglia, a cui comunque ti stavi preparando per paura, perché può davvero capitarti, ti fa sentire come se non avessi più da perdere niente. Come se il peggio fosse passato. E ti da la spinta per rivederti e riconsiderare le cose. Parte da lì, ma non è solo questo.

Credo che per Lea fosse necessario quel passaggio per scoprirsi libera. Ma non libera di osare e di vivere la vita, perché è sopravvissuta. Libera di pensare a se stessa. Di fregarsene di dare e ricercare attenzioni, di riuscire a vivere sulla propria pelle e davvero quello che da giovane lei stessa si era ripromessa di fare, soffocata dall’amore di una madre potente perché troppo presente, da tutelare. E cioè pensare prima a sé e poi agli altri. Perché se ti ami, gli altri ti ameranno e se non lo faranno, pazienza, basti tu.

La battaglia più dura è davvero contro se stessi e non finisce mai. Per questo immagino e spero in una Lea che, scoprendo la chiave giusta, l’abbia fatta talmente sua, da non ricaderci più. Nella vita difficilmente succede, ma almeno nella splendida vita dei romanzi, voglio davvero pensare che sia così. Glielo auguro, se lo merita.

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